Mobbing e molestie sessuali sul luogo di lavoro: confronto e differenze

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Mobbing

Abbiamo già trattato in altri articoli di questo sito sia del “mobbing” (vedi “Il “mobbing” sul luogo di lavoro: cos’è e come ci si può tutelare”), sia delle sue differenze rispetto al c.d. “straining” (vedi “Cos’è lo “straining”? Differenze con il mobbing“).

Vediamo adesso quali sono le differenze tra le condotte tipizzanti il mobbing e le molestie sessuali sul luogo di lavoro. Si tratta di un argomento sempre più attuale, come è dimostrato dalle sempre più numerose pronunce giurisprudenziali in materia. 

Il concetto di molestia in genere, nonché specificatamente di molestia sessuale, è contenuto nel D.lgs 11/04/2006 n. 198, c.d. “Codice delle pari opportunità” tra uomo e donna, in cui il legislatore italiano ha recepito le linee guida comunitarie sancite nella Direttiva CEE n. 2002/73. In particolare, ai sensi dell’art. 26, sono considerate discriminatorie e definite “molestie”, “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al  sesso,  aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice  o  di  un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”, nonché “molestie sessuali”  ”quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo” (la definizione ricalca esattamente quella comunitaria). Sempre secondo la disciplina prevista dal predetto art. 26, tutti gli atti o provvedimenti relativi al rapporto di lavoro  dei  lavoratori o delle lavoratrici vittime di molestie sono nulli se adottati in conseguenza del rifiuto o della sottomissione ai  comportamenti  medesimi.

Da una parte, quindi, le molestie in senso lato sono caratterizzate da comportamenti motivati da ragioni riguardanti il genere quali ad es. la marginalizzazione al rientro della maternità, il mobbing conseguente al matrimonio o al rifiuto di un invito a cena, ecc.. Dal’altra, le molestie sessuali consistono in qualsiasi condotta, comportamento o atteggiamento “gratuito” avente come contenuto proprio il sesso e la sfera dell’intimità sessuale della persona, che risulta indesiderata per colui che lo subisce, offendo la persona nella sua dignità. A titolo di esempio, si possono citare condotte come: –  apprezzamenti verbali offensivi sul corpo e sulla sessualità; –  richieste implicite o esplicite di rapporti sessuali non graditi; –  sguardi insistenti e ammiccamenti; –  contatti fisici intenzionali indesiderati; –  promesse esplicite o implicite di carriera o di agevolazioni e privilegi sul posto di lavoro in cambio di prestazioni sessuali; – intimidazioni, minacce e ricatti subiti per aver respinto comportamenti finalizzati al rapporto sessuale.

L’elemento caratterizzante la molestia indesiderata è, dunque, la sua “connotazione sessuale”, che non presuppone una intenzionalità da parte dell’autore (quest’ultimo potrebbe infatti anche ritenere che la condotta denunciata non costituisca nè molestia, nè tanto meno molestia a carattere sessuale), né delle condotte persecutorie plurime e ripetitive.

Ciò è già sufficiente per evidenziare delle differenze fondamentali rispetto al mobbing:

  • nella molestia sessuale vi è una forte componente fisica (contatto fisico o intrusione negli spazi altrui); il mobbing ha una componente essenzialmente psicologica;
  • la molestia si manifesta anche con l’uso di termini del tutto dispregiativi, con una ricerca anche di approvazione in terzi soggetti; nel mobbing si cerca invece proprio di evitare l’utilizzo in pubblico di espressioni offensive, soprattutto alla presenza di testimoni, concretizzandosi le condotte illecite in critiche e false accuse nei confronti della vittima;
  • la vittima della molestia sessuale è considerata di solito inoffensiva, incapace di difendersi; la vittima del mobbing viene, invece, vista come un bersaglio pericoloso da tenere sotto controllo e nel caso allontanare;
  • la molestia può consistere in un episodio singolo o in più episodi; il mobbing è caratterizzato, necessariamente, da una pluralità e reiterazione dei comportamenti lesivi, dalla ripetitività e sistematicità degli “attacchi” da parte del soggetto agente nei confronti del lavoratore, preordinati ad ingenerare “grave disagio” nella vittima.

Il lavoratore che ritiene di aver subito una molestia deve agire in giudizio provando la stessa. Il Codice delle pari opportunità, sopra citato, detta una disposizione anche in punto di onere della prova, stabilendo, nell’art. 40, che “Quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da  dati  di carattere statistico relativi alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche,  ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del   sesso, spetta al convenuto l’onere della prova sull’insussistenza della discriminazione”. In altre parole, il legislatore prevede un regime probatorio agevolato nei confronti della vittima delle molestie, la quale può dare prova delle stesse anche attraverso presunzioni, spettando, poi, all’autore della molestia la prova del fatto che la condotta denunziata non sia discriminatoria.

Ad esempio: i Giudici hanno ritenuto sussistenti le molestie lamentate da una lavoratrice sulla scorta delle sue dichiarazioni e di quelle di colleghe che lamentarono lo stesso tipo di trattamento subito dalla ricorrente (cfr. Cass. civ. sez lav 12318/2010); oppure, le molestie sono state riconosciute esistenti sulla scorta della testimonianza di colleghe attendibili e concordanti, anche se de relato, che avevano riferito sia i racconti della ricorrente, sia il cambiamento e peggioramento di umore della ricorrente stessa (la quale piangeva sempre più spesso sul luogo di lavoro, e ciò è stato considerato e valorizzato proprio quale elemento presuntivo a conferma delle condotte di molestie denunciate (cfr. Trib. Milano, sez lav. 19/02/2010 n.  793). Si confronti anche Trib. Milano, sez. lav. sent. 3/11/2009, n. 4478, e Corte di Appello di Milano, Sez. Lavoro, sent. 20/12/2010, n. 1044, in cui la Corte, confermando in pieno la sentenza di primo grado, nel ritenere sussistenti le molestie sessuali denunciate, ha ribadito la responsabilità in capo, oltre che al materiale autore delle condotte moleste, anche del datore di lavoro in quanto, seppur a conoscenza della situazione, aveva omesso qualunque provvedimento volto a ripristinare la situazione di tutela della dignità personale e morale del prestatore di lavoro..

Si può notare, dunque, come l’onere della prova relativo alle molestie sessuali sia certamente meno gravoso rispetto a quello in punto di mobbing. A tale ultimo riguardo, infatti, nella giurisprudenza si sono susseguite numerose pronunce in cui non è stata riconosciuta la sussistenza del mobbing, stante l’interpretazione rigorosa e restrittiva che di tale fattispecie è data dai giudici al fine di evitare un uso scorretto e inflazionato della fattispecie stessa, riconoscendo, magari, la sussistenza di una molestia sessuale (spesso la fattispecie della molestia sessuale risulta associata ad una più generale situazione di aggressione psicologica del lavoratore inquadrabile nel mobbing).

Ad esempio, in una fattispecie in cui un lavoratore, con mansioni di capo reparto e, successivamente, di responsabile del settore analisi e ricerche, aveva lamentato di aver subito mobbing, la Suprema Corte (cfr. Cass. civ. Sez. lav. Sent., 27-12-2011, n. 28962) ha evidenziato come la Corte di Appello abbia correttamente esaminato l’insieme dei comportamenti tenuti del datore di lavoro, evidenziando come “nessuna ratio unificatrice lega gli eventi addebitati all’Amministrazione, che non costituiscono azioni mirate in senso univoco verso un obiettivo predeterminato diretto ad emarginare il C., e non vi sono circostanze che consentono di ritenere esistente l’elemento soggettivo costituito dalla specifica intenzione di discriminare e vessare il lavoratore esercitando nei suoi confronti una violenza morale“. Oppure, in altra occasione, la Suprema Corte (cfr. Cass. civ. Sez. lav., Sent., 16-09-2011, n. 18942), accogliendo il ricorso e dunque cassando la sentenza della Corte di Appello di Milano, ha ritenuto non provato il mobbing, precisando come “in mancanza delle necessarie specificazioni, le circostanze rappresentate dalla lavoratrice non possono di per sè essere qualificare come vessatorie o persecutorie, potendo trattarsi di atti legittimi, espressione del potere direttivo e gerarchico esercitato dal direttore”.

La tutela accordata al lavoratore vittima di molestie sessuali ricalca quella riconosciuta alla vittima del mobbing. Infatti, secondo la giurisprudenza concorde e la dottrina, le molestie sessuali vengono ricondotte alla violazione del generale obbligo del datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare la integrità psico-fisica, l’incolumità e la personalità morale del lavoratore, ai sensi dell’art. 2087 c.c.: nell’ipotesi, quindi, in cui il datore di lavoro sia a conoscenza di condotte moleste poste in essere sul luogo di lavoro, ha il preciso dovere di intervenire adottando tutte le misure necessarie, anche di natura disciplinare e organizzativa, al fine di garantire la tutela dei dipendenti. Il datore di lavoro potrebbe essere anche chiamato a rispondere anche in via extracontrattuale (ex art. 2049 c.c.) per il fatto illecito commesso dal proprio dipendente nello svolgimento delle funzioni assegnate e in solido con lo stesso (in tal caso, la responsabilità del datore di lavoro potrebbe essere esclusa solo laddove venisse provato non solo il dolo del lavoratore, ma anche il fatto che la molestia si sia verificata sul luogo di lavoro solo in via del tutto accidentale e casuale).

La vittima della molestia sessuale, così come la vittima del mobbing, ha diritto al risarcimento di tutti i danni subiti, compresi quelli non patrimoniali, nelle componenti di danno biologico, morale ed esistenziale.

In conclusione, forse dovrebbe essere valutato un intervento legislativo più ampio e chiarificatore in ordine alle situazioni di conflittualità che possono sorgere sul luogo di lavoro, a seconda dei casi denunciate come mobbing, straining o molestie, e alla loro giusta tutela. Ciò al fine di garantire che solo le condotte realmente connotate da gravità portino ad una condanna nei confronti dell’autore delle stesse, evitando che “demansionamenti, trasferimenti non condivisi ecc.” siano “sistematicamente” e pretestuosamente tradotti come vessatori o persecutori, alimentando così il contenzioso in materia.

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