Prime applicazioni concrete del nuovo art. 18 St. Lav. sui licenziamenti economici

images blogIl licenziamento per giustificato motivo oggettivo (GMO) è definito dall’art. 3 della L. 604/1966, come il recesso dettato da ragioni inerenti “un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro,  l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa”.

Vengono ricondotte al licenziamento per GMO le figure del licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c., per inidoneità fisica o psichica del lavoratore e per motivi economici. 

Secondo la giurisprudenza consolidata in materia, affinché il licenziamento per GMO sia legittimo occorre che il datore di lavoro provi l’esistenza dei seguenti presupposti: sussistenza di ragioni reali ed effettive alla base del recesso; nesso di causalità tra il licenziamento e le ragioni enunciate; onere di “repechage”, ovvero di provare che il lavoratore non può essere utilmente impiegato in altre mansioni uguali o equivalenti.

Come già evidenziato in altro articolo pubblicato in questo sito (si veda La riforma dell’art.18 dello statuto dei lavoratori), la riforma Fornero ha introdotto importanti novità in materia di licenziamento per GMO disposto dai datori di lavoro aventi i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, comma 8, St. Lav., tra cui l’obbligo di esperire un preventivo tentativo di conciliazione innanzi alla DTL competente ex art.  7 L. 604/66), a pena di inefficacia del licenziamento stesso. Inoltre, come per i licenziamenti disciplinari, a seconda della “gravità” della fattispecie, il Giudice sarà chiamato a decidere se disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro oltre al risarcimento dei danni, ovvero, in alternativa, riconoscergli solamente un’indennità risarcitoria compresa tra 12 e 24 mensilità di retribuzione.

In particolare, ai sensi dell’art. 18 comma 7, St. Lav.Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma…”.

In altre parole, una volta accertata l’assenza di giusta causa o giustificato motivo, se il Giudice del lavoro accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per GMO disporrà la reintegrazione del lavoratore, negli altri casi, invece, sanzionerà il licenziamento ingiustificato con il solo indennizzo risarcitorio.

L’accertamento della “sussistenza del fatto” è dunque fondamentale per individuare la sanzione da applicare. “Fatto materiale” o “fatto giuridico”?

Abbiamo già trattato l’argomento nell’articolo “Prime applicazioni concrete del nuovo art. 18 St. Lav. sui licenziamenti disciplinari”, rilevando come nella prima ordinanza in materia  – post Riforma Fornero –  il  Tribunale di Bologna (in una fattispecie di licenziamento disciplinare), ha interpretato il fatto come “fatto giuridico”, ovvero “globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo”, comportando una disapplicazione pratica della sanzione solo indennitaria di cui al 5 comma dell’art. 18.

Di diverso avviso è stato, successivamente, il Tribunale di Milano, il quale, con l’ordinanza resa in data 28/11/2012, ha fornito una interpretazione della norma certamente più aderente e conforme allo spirito della Riforma.

Nel caso in esame, il Tribunale, dopo aver accertato che il fatto sussisteva (la circostanza della cessazione dell’appalto, posto a fondamento del recesso, non era contestata tra le parti), ha rilevato che non sussisteva il giustificato motivo, in quanto il datore di lavoro non aveva dimostrato l’impossibilità di reimpiegare il lavoratore in altri appalti dallo stesso gestiti (obbligo di repechage), ritenendo così applicabile la sola sanzione indennitaria pari a 20 mensilità.

Secondo il Giudice del lavoro milanese, dunque, il “fatto” deve essere considerato in senso materiale: deve essere inteso unicamente come la circostanza che il datore di lavoro adduce a fondamento del licenziamento (nel caso trattato, consisteva nella cessazione dell’appalto al quale il lavoratore era addetto”). Ogni altro elemento, rileverà al fine di valutare la legittimità o meno del recesso.

Il ragionamento da seguire è il seguente: una volta accertata l’illegittimità del licenziamento, occorre individuare la sanzione applicabile seguendo il criterio fornito dalla legge, ossia la sussistenza o meno del fatto posto alla base del recesso. Nell’ipotesi in cui si accerta che tale fatto materiale sussiste, allora troverà applicazione la sola indennità risarcitoria di cui al 5 comma dell’art. 18 compresa fra le 12 e le 24 mensilità, rimanendo preclusa ogni possibilità di reintegrazione. Reintegrazione che, coerentemente con le intenzioni del legislatore, potrà essere disposta solo qualora il Giudice accerti la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento.

L’ordinanza del Tribunale di Milano sopra richiamata risulta interessante anche perché si pronuncia in punto di licenziamento discriminatorio e/o ritorsivo. Infatti, nel caso di specie, il ricorrente aveva chiesto di accertarsi la nullità del licenziamento per la sussistenza di un  “motivo illecito determinante” (asserita ritorsione da parte del datore di lavoro). Al riguardo, secondo il Tribunale adito, il licenziamento ritorsivo è nullo quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico a determinare il licenziamento stesso. L’accertamento, come nel caso in esame, della sussistenza del fatto contestato è di per sé sufficiente ad escludere la nullità del licenziamento per motivo ritorsivo, in quanto quest’ultimo, laddove provato dal datore di lavoro, non sarebbe comunque l’unico ad aver determinato il licenziamento.

A seguito della riforma dell’art. 18, quindi, si può ritenere che i lavoratori, sempre più spesso, tenteranno di eccepire il carattere discriminatorio e/o ritorsivo del licenziamento al fine di poter accedere alla tutela reale “piena” di cui ai commi 1-3 del novellato art. 18.

 

 

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